Il monte La Verna non è soltanto una montagna. È una soglia, un grido di pietra che si è levato dalla Terra quando il Cielo pianse la morte dell’Uomo-Dio. Le sue rocce sembrano sospese tra la materia e l’eterno, come se la loro forma fosse il ricordo di una preghiera mai conclusa. Là, dove San Francesco alzò il suo eremo, il silenzio è ancora vivo. È un silenzio che parla, che vibra nel cuore di chi osa ascoltare. Un uomo, stanco e consumato, salì un giorno quel monte. Aveva vissuto di ombra: era stato un sicario, un artefice della morte. Ora, alle soglie della propria, cercava la risposta che nessuna vita gli aveva mai dato. La paura lo aveva spinto fin lassù — non la paura degli uomini, ma quella del nulla, del non essere. Sulla vetta, presso la roccia chiamata Salto del Lupo, trovò un frate in preghiera. Il sicario, irritato di non essere solo, lo interpellò: «Frate, sono stato il miglior sicario d’Italia. Ora la vecchiaia e la morte mi inseguono. Dimmi: che cosa c’è, oltre? Parlami dell’Inferno e del Paradiso». Il frate aprì gli occhi. Nel suo sguardo ardeva una fiamma antica. «Vattene», disse piano ma con forza. «Questo è luogo sacro. Non osare profanarlo con le tue parole.» Il sicario impazzì di rabbia. Lo afferrò per il collo, lo scagliò contro un albero. Il frate, strangolato, riuscì appena a sussurrare: «Ecco, figliolo… questo è l’Inferno che porti con te». Il sicario rimase pietrificato. In quell’attimo vide: non un luogo, ma sé stesso. L’Inferno era in lui, bruciava nel suo cuore, e nessuna morte lo avrebbe mai spento. Cadde in ginocchio, piangendo come un bambino che si ritrova. Il frate, ansimando, lo sollevò e lo abbracciò. «E questo», mormorò, «è il Paradiso che cercavi». Allora l’uomo comprese: l’Inferno e il Paradiso non sono due mondi, ma due istanti di consapevolezza. Il primo nasce quando dimentichi chi sei, il secondo quando ti ricordi di esserlo. Sul monte La Verna, tra le rocce lanciate al cielo, il sicario morì a sé stesso e nacque un uomo. Non più carnefice, non più vittima.